C’era una volta il ciabattino, c’era una volta il maniscalco, c’era una volta l’arrotino e… tanti altri mestieri ancora. Non che siano spariti del tutto ma sicuramente è cambiato il modo di rappresentarli. Oggi sicuramente non abbiamo più quel flemmatico modo di lavorare, oggi si corre, si corre, si corre. Ma quando riusciamo a godere del nostro lavoro? Forse questo è il segreto della longevità di una volta?
I ricordi mi proiettano nel piccolo paesino dei miei nonni oggi non più “sperduto” fra le montagne d’Abruzzo, quando li seguivo attenta, con occhi di bambina,  nello svolgimento dei lavori nei campi o nella preparazione del pane e conserve varie che  mia nonna sommava già al duro lavoro svolto durante la giornata e a tutti quei lavoretti di piccola manutenzione della casa, degli attrezzi di lavoro e all’accudire gli animali della stalla dopo essere rientrati dal pascolo che nel frattempo mio nonno era intento a svolgere, aspettando la cena mentre era ancora giorno ma dopo una giornata che era stata già abbastanza lunga e faticosa per loro.
Non ci si fermava mai, se non appunto all’ora della cena consumata in religioso silenzio sopraffatti più dalla stanchezza che dai profumi delle minestre della nonna, che bollivano e ribollivano nel paiolo di rame (o “callaro” o ancora “cottorella” così chiamata quella della forma più grande) appeso nel camino sotto lo scoppiettante rumore e lo scintillio della legna secca, conferendo ai cibi quel particolare sapore che solo la cottura a “legna” sa dare. Già, anche i profumi così come i sapori non sono più gli stessi…
Una premessa del genere era d’obbligo per arrivare a descrivere gli unici momenti di socializzazione della piccola comunità. Per le donne c’era la fonte al momento del bucato collettivo. Ognuna andava col suo cesto di biancheria e il proprio pezzo di sapone (ricavato da grassi animali e privo di profumazione), non c’era l’acqua corrente in casa,  di conseguenza era l’unico sistema per fare il bucato ma anche un momento in cui le donne potevano “aggiornarsi” su “fatti e misfatti” della piccola cittadinanza… dove anche la mucca “gravida” o la chioccia che stava  covando era un evento di una certa rilevanza, senza parlare della gravidanza della comare “Rosina” che aspettava il quinto figlio… salute!
Altro momento “caldo” per qualche chiacchiera al femminile era ritrovarsi al forno (collettivo) per la cottura del pane. Collettivo perché non c’erano i forni privati ma l’unico del paese dove bisognava “prenotarsi” per la cottura dei propri pezzi per non rischiare di trovare affollamento negli stessi giorni. Il pane… ineguagliabile profumo di qualcosa che ha sempre rappresentato per ogni popolazione  non solo la sopravvivenza ma una vera e propria tradizione e cultura… e il pane nonna lo faceva così: preparava l’impasto classico con farina, acqua, sale, lievito (lievito naturale riprodotto da un precedente pezzo d’impasto che si era lasciato riposare e prendere una naturale acidità  sotto un piatto rovesciato in un angolo della dispensa) e patate bollite e schiacciate (come se si dovessero preparare degli gnocchi). Già, la patata, perché quest’ultima conferiva al pane una certa freschezza e permetteva una conservazione più lunga nel tempo (non lo si faceva tutti i giorni ma ogni 10/15 circa). Una volta impastato e lavorato nella forma tipica allungata a “filone” le forme venivano affiancate l’una a all’altra su una lunga tavola di legno e, arrotolato un canovaccio a mo’ di ciambella adagiato sulla testa, nonna caricava questa lunga tavola contenente le forme di pane coperte da un panno e si recava al forno, tenendo una mano sulla tavola e bilanciando il peso tenendo l’altra poggiata su un fianco modello “brocca” come mi piaceva descrivere…
Una volta arrivata in forno, che aveva prima provveduto a preparare dando fuoco alle proprie fascine di legna, procedeva alla cottura. La cottura del pane era preceduta da una sorta di test del calore del forno stesso. Come? Tranquilli, non metteva la mano dentro… eheheh… ma infornava la pizza, anch’essa ricavata dall’impasto del pane, se la pizza bruciava troppo sul fondo il forno era troppo caldo e bisogna arieggiarlo per farlo raffreddare… pizza comunque commestibile e rigorosamente condita con pezzi di sale grosso che restavano interi e croccanti sotto i denti… mmhhh…   Cotto il pane lo si riportava a casa con lo stesso “mezzo di trasporto” e lo si conservava per i giorni che seguivano nella tipica madia… in questo caso nella tipica “arca” abruzzese. L’arca era infatti costruita con il coperchio bombato da cui prendeva il nome, una sorta di contenitore in legno povero ma quasi sempre abbellito con decori incisi, quasi privo d’aria, che lasciava il pane sottovuoto naturale, un’altro aiuto per la sua lunga conservazione.  Il pane degli ultimi giorni, ovviamente non più tanto fresco, ma anzi abbastanza indurito ormai, non andava gettato via, era ancora buono per essere utilizzato per condire minestre, fare “panzanelle” o cucinando il “pancotto” tipico piatto  condito con altri ingredienti di “risulta” che stavano rischiando il deterioramento. Tornando all’arca abruzzese, sono riuscita a recuperare questo straordinario pezzo di storia e costume d’Italia, purtroppo però non più quello di mia nonna che è andato perso nel tempo. Negli anni sono riuscita inoltre a recuperare diversi utensili entrati ormai a far parte del mondo del collezionismo. Dagli attrezzi usati in casa, a quelli soprattutto rivolti alla cucina: vecchie forme di rame, pentole in alluminio, ceste di vimini di varie grandezze, il mitico “mattarello” per stendere la pasta fatta in casa, porta sale, porta fiammiferi, imbuti e vecchie bottiglie. Mi fermo qui, l’elenco è interminabile, oggetti d’altri tempi su cui oggi si possono fare due chiacchiere magari davanti a un piatto di pane appena sfornato e condito con un filo d’olio prodotto nelle nostre straordinarie terre d’Italia.
Ops, scusate, ma presa dalla descrizione dimenticavo l’altro momento delle “chiacchiere”. Al forno c’era sempre più di qualche donna, anche se quel giorno il forno era destinato alla cottura di qualcuna, qualcun altra andava ad aiutare per ricevere poi il cambio di favore al suo turno e allora capitava di aggiornarsi sul qualche altro argomento della comunità… eheheh… anche con un pizzico di pettegolezzo… “Gran Hotel” non arriva nel piccolo paesino all’epoca ma veniva redatto sul luogo… eheheh… e accadeva di tornare su un fatto lasciato in sospeso quel giorno alla fonte…