Alla fine del cinquecento il collezionismo eclettico di pochi stravaganti e facoltosi eruditi che raccoglievano il mondo in una stanza si converte grazie all’intuito di uno scienziato bolognese dai cabinet de curiosités  o dalle wunderkammern in un museo scientifico pubblico
L’erudito collezionista cinquecentesco di cose curiose e insolite – molto spesso un dilettante compiaciuto più della stranezza che della qualità della sua raccolta composta in modo del tutto non sistematico e rispondente all’unico requisito della bizzarria – allestisce nel suo studiolo una stanza delle meraviglie dove accoglie un insieme di talismani intellettuali, simboli di un tesoro originale.
Sistema su scaffali o dentro armadi, alle volte persino appendendoli al soffitto, una congerie di oggetti erratici, eterogenei e disarmonici, che hanno in comune il solo pregio della presunta rarità esotica, della inconsueta preziosità o addirittura dell’apparenza mostruosa.
Si tratta del tentativo eclettico di circoscrivere e controllare la realtà sensibile il più delle volte inconoscibile e pertanto minacciosa di un vasto macrocosmo da ridurre – per neutralizzarlo – ad una sorta di microcosmo privato, domestico perché frammentato, facilmente dominabile perché racchiuso nello spazio limitato di un’unica stanza o addirittura di un solo armadio.
Così fossili, conchiglie, coccodrilli impagliati, uova di struzzo, denti di narvali (creduti corni del mitico unicorno), piante rare, coralli, minerali, animali mostruosi, vanno a coesistere promiscuamente – esibendo la loro inquietante stravaganza e alterità  – con pietre preziose, monete, antichità classiche, orologi meccanici, cristalli rari, avori, maioliche, argenti, mobili in tartaruga, sculture zoomorfe, reliquie e reliquiari in oro e molte altre raffinatezze e curiosità, costituendo un meraviglioso agglomerato  di naturalia e artificialia privo di qualsivoglia criterio di coerenza e pertanto definito nel suo complesso mirabilia, ovverosia commistione di oggetti inauditi, mirabolanti, in grado di destare stupefazione.
Per soddisfare l’insaziabile attrazione per le cose rare alcuni collezionisti giungevano persino ad accettare nelle proprie raccolte addirittura degli animali costruiti – risultato di arbitrari assemblaggi di porzioni di reperti di specie diverse – lasciati credere esemplari di una fauna eccezionale, in realtà vere e proprie chimere,  creature inesistenti.
Galilei ironizza, e chiama in un suo scritto studietto di qualche ometto curioso la moda di queste raccolte di prodigi di natura.
Ma nei casi di collezioni più importanti – di proporzioni molto ampie – in uso soprattutto nelle corti del Nord Europa come anche in alcune nostrane corti principesche, le Wunderkammern prendono un aspetto decisamente più articolato e dalle finalità più scientifiche.
Il materiale della raccolta enciclopedica non si dispone più in caotico ammasso: le sezioni pertinenti a ciascun settore vengono ordinate seguendo delle precise regole dettate dalle varie discipline e  dalle conoscenze dell’epoca, soprattutto dal rinnovato ermetismo e dalle nuove aree del sapere del XVI secolo: magia naturale, astrologia e alchimia.
Persino gli strumenti, gli apparecchi, le macchine, i trattati e i prontuari vengono disposti secondo una complessa simbologia che comprende e coinvolge finanche le allegorie del programma iconografico rispettato dalle pitture che, nei casi più fastosi, decorano le pareti e la volta dell’ambiente in cui la Wunderkammer viene realizzata.
Se tutto questo si configura ai nostri occhi come una sorta di assurdo superficiale inventario del mondo, una maniacale magica ed ermetica propensione all’accumulazione da parte di stravaganti iniziati, per quanto colti ed eruditi, non si può non riconoscere che da questi presupposti – fatti propri e sviluppati adeguatamente ad opera di autentici studiosi – ha avuto inizio una nuova interpretazione del mondo e la possibilità di ricostruirne la storia naturale.
Ulisse Aldrovandi trascorre l’intera vita (1522-1605) a raccogliere e catalogare pazientemente reperti naturalistici, ma il suo modo di procedere nello studio è diverso dal consueto. Pur partendo da una impostazione enciclopedica pliniana e aristotelica (questi due autori e le loro opere zoologiche, molto diffuse grazie ai procedimenti di stampa, sono nel cinquecento la base fondamentale per gli studi sul mondo animale), sente la necessità di attenersi ai dati osservativi e all’esperienza diretta, effettuando vere e proprie ricerche sperimentali e sistematizzando il suo lavoro e i materiali raccolti e quindi, alla fine del secolo, nel 1599, avvia la pubblicazione di alcuni suoi studi di zoologia: Ornithologicae e De Animalibus insectis, oltre alla sua opera principale, la Storia degli animali, illustrata.
Due episodi precedenti sono significativi nel sancire l’importanza dei suoi studi scientifici: Aldrovandi ottiene nel 1561 presso l’università di Bologna l’istituzione di un corso di studi: de fossilibus, plantis et animalibus e nel 1568 avvia, nella stessa città, la costituzione di un orto botanico pubblico, il terzo in Italia dopo Padova e Pisa.
A coronamento poi, due anni prima di morire, nel 1603, Aldrovandi dona la sua collezione al Senato bolognese che – comprendendone in pieno la finalità pubblica e didattica – apre un museo nel palazzo del Comune.
Aldrovandi è dunque un protagonista dell’avvio di un nuovo orientamento metodologico nelle scienze naturali e nell’educazione. Alla donazione dei materiali zoologici affianca infatti il lascito dell’importante raccolta di circa 3.800 libri a stampa e di circa 360 volumi di manoscritti: e ciò dà la misura dell’importanza attribuita dallo studioso al legame essenziale tra l’osservazione diretta della natura e la parola, la scrittura.
Consultare il sapere letterario del passato, recuperato dopo secoli di oblio (le fonti classiche, la parola dei poeti, i resoconti degli antichi viaggiatori), rappresenta per Aldrovandi il complemento indispensabile alla conduzione di un serio studio naturalistico.
Il ricorso alla letteratura e in particolare alla poesia è interessante perché è come se gli animali studiati fossero collocati anche nel loro ambiente semantico: la descrizione del soggetto nei suoi caratteri specifici, sperimentalmente verificati, si accompagna alla citazione di testi tradizionali per qualificarlo e avvalorarlo, dal momento che i resoconti degli autori classici sono ritenuti dai naturalisti rinascimentali  imprescindibili e degni di fede.
E  poiché  per Aldrovandi il museo e il libro rappresentano l’occasione per una reductio ad unum – il tentativo di costruire una summa che raccolga il sapere nella sua totalità – scegliere tra il mestiere del naturalista e quello del semplice compilatore è impossibile: quindi lo studioso decide di raccogliere in una medesima forma tutto ciò che è stato visto e tutto ciò che è stato raccontato.
Per la completezza del suo progetto enciclopedico, là dove le tessere sono mancanti, è poi necessario ricorrere a rappresentazioni sostitutive aprendo la strada al disegno naturalistico.
Lo scienziato stabilisce così una stretta collaborazione con artisti-naturalisti creando alle sue dipendenze una vera e propria bottega artistica di disegnatori, pittori e incisori fra cui emerge Jacopo Ligozzi pittore di successo alla corte del granduca di Toscana Francesco I de’ Medici, anch’egli facoltoso possessore di una cospicua collezione enciclopedica.
Ligozzi ritrae in disegni, pastelli e tempere, con sorprendente verosimiglianza, i campioni originali di piante ed animali di cui la collezione dello studioso bolognese è ricca, rifornendo con le sue tavole – caratterizzate da virtuosistica accuratezza e fedeltà al soggetto – anche la raccolta di specie insolite e esotiche dei granduchi di Toscana che, apprezzandone le doti di abile illustratore oltre che di pittore, ne richiedono insistentemente – mediante un fitto scambio di corrispondenza con Aldrovandi – le opere.
La raccolta Aldrovandi annovera quindi tanto animali veri quanto animali rappresentati in immagini dipinte: il campionario reale integrato nelle assenze da uno virtuale.
Sono più di 2.830 le tavole acquerellate, oltre le numerosissime matrici xilografiche, che compongono le pinacoteche, come Aldrovandi chiama gli armadi in cui è custodito tutto il  suo materiale grafico.
Già nei primi decenni dopo la scoperta delle Americhe, nonostante le difficoltà pratiche e la conseguente rarità delle missioni scientifiche al di là dell’oceano, giungono in Europa i primi campioni di piante ed animali. I viaggi degli studiosi hanno lo scopo della ricerca e della scoperta di nuove specie di piante utilizzabili a fini terapeutici oltre che la raccolta di esemplari di fauna esotica per ampliare le classificazioni già note.
La discreta documentazione che se ne ricava consente all’illustrazione puntuale e accurata delle rarità botaniche e faunistiche di assumere un ruolo importante nell’apparato iconografico delle più aggiornate trattazioni naturalistiche dell’epoca.
Ma l’illustrazione naturalistica viene usata da Aldrovandi anche per trattare in modo sistematico un tema di chiara derivazione medievale: i mostri, i cosiddetti scherzi di natura.
Esseri difformi di ogni tipo o animali sorprendenti, favolosi, mitici – che evocano quelli degli antichi bestiari – sono oggetto di descrizioni e studi sistematici e di conseguenti trattazioni.
Le immagini sono diffuse tra i naturalisti, vengono anche stampate nelle loro opere, avviando una prima forma di confronto e di controllo scientifico in campi ancora tutti da scoprire ed esplorare come l’embriologia e la teratologia.
Anche Aldrovandi è interessato ai primi esperimenti embriologici (segue lo sviluppo del pulcino aprendo le uova ad intervalli regolari) occupandosi inoltre di una realtà fatta di esseri assolutamente fuori della norma (probabilmente creature anomale o malformate).
Compila anche un’opera dal titolo Monstruorum historia, che verrà pubblicata postuma, muovendosi ai limiti tra creature reali e immaginarie quando fornisce accurate descrizioni e immagini di uomini che in America raggiungerebbero dimensioni gigantesche, oppure sarebbero forniti di orecchie lunghe fino a terra; mentre in Africa vivrebbero addirittura alcuni uomini con la testa di cane e altri con un occhio solo.
Non deve sorprendere che uno scienziato della qualità di Ulisse Aldrovandi sia ancora influenzato da immagini che non corrispondono alla realtà, che non sono oltretutto state verificate nella loro esattezza, poiché le stesse notizie e descrizioni riportate dai viaggiatori di ritorno dal Nuovo Mondo sono spesso permeate di suggestioni favolose, provocate sia dallo stupore e dalla sorpresa suscitate da quella natura esuberante e strana, sia dalle radicate fantasie di origine medievale che popolavano  ancora l’immaginario dell’uomo occidentale. Anche Aldrovandi non sfugge al coinvolgimento e all’interpretazione assolutamente visionaria delle notizie provenienti da paesi lontani.
L’originalità della visione aldrovandiana risiede però nel considerare il mostro non un ermetico  e insondabile suggello dell’inconoscibile naturale – pertanto accettato incondizionatamente per quello che è senza porsi tante domande, concedendo uno spazio senza riserve al meraviglioso – ma bensì nel tentare di spiegarlo come la chiave stessa della presenza e della storia degli esseri viventi e della diversità tra le specie.
Il teatro di natura che Aldrovandi dispiega nella sua raccolta e nei suoi atlanti scientifici – mondo vegetale e animale, reale o virtuale che fosse – ha per noi  ora solo un fascino antiquario, forse di curiosità, indicativo però di un momento importante nella storia delle scienze naturali: quando – anche se molto cautamente e lentamente – si tentavano nuovi approcci metodologici nel sapere scientifico insieme all’affermarsi  di un certo primato della Natura.

Maria Cristina Giammetta